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Tumori ematologici

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Leucemia acuta mieloide e linfoblastica

L'organismo produce ogni giorno milioni di cellule del sangue. Queste cellule circolanti sono prodotte nel midollo osseo contenuto all’interno delle ossa a partire da cellule “progenitrici” che sono definite “cellule staminali”. In una persona sana, queste cellule staminali maturano progressivamente in cellule che vengono rilasciate nel sangue periferico:

  • globuli bianchi maturi (linfociti e granulociti): sono le cellule che ci proteggono dalle infezioni;
  • globuli rossi: sono le cellule che trasportano l'ossigeno in tutto il corpo;
  • piastrine: aiutano il sangue a coagularsi.

La leucemia si verifica quando il DNA (le istruzioni genetiche che controllano l'attività delle singole cellule) di una cellula staminale subisce un danno. La cellula staminale malata, anche nota con il nome di “blasto”, si moltiplica rapidamente togliendo spazio alla proliferazione delle cellule sane. I blasti si distribuiscono in parti specifiche del corpo tra cui il sangue, il fegato, i linfonodi, la milza e la pelle.

 

CLASSIFICAZIONE DELLE LEUCEMIE ACUTE

Le leucemie acute sono classificate in base alla linea cellulare coinvolta in:

  • Leucemia Acuta Mieloide
  • Leucemia Acuta Linfoblastica


LEUCEMIA ACUTA MIELOIDE

Leucemia Acuta Mieloide è una patologia che colpisce la cellula staminale che normalmente produce i granulociti, i globuli rossi e le piastrine. La cellula malata prende il nome di “mieloblasto”. Nella maggior parte dei casi, i mieloblasti si trovano nel midollo osseo e nel sangue periferico; raramente si possono avere localizzazioni in organi solidi come fegato, milza, cute ecc.

I sintomi sono legati alla mancata produzione di cellule del sangue sane: i pazienti in genere avvertono stanchezza, infezioni ricorrenti, sanguinamenti spontanei, comparsa di lividi spontanei. La sintomatologia dipende anche dalle sedi di infiltrazione dei mieloblasti (es. se coinvolgimento splenico, si potrà avere ingrossamento della milza con dolore addominale). 

Sulla base di alcune caratteristiche biologiche, la leucemia mieloide acuta viene classificata in forme a rischio “favorevole”, “intermedio” ed “alto”. Questa classificazione ci aiuta a scegliere il miglior trattamento per ciascun paziente.

La scelta della terapia dipende appunto dalle caratteristiche biologiche della malattia e dalle caratteristiche del paziente. Nel paziente con una malattia a rischio favorevole, giovane ed in buone condizioni (fit) il trattamento prevede una chemioterapia iniziale detta di “induzione”, seguita da un numero variabile di cicli di chemioterapia di “consolidamento”. Nel paziente con una malattia a rischio intermedio o sfavorevole è previsto, al termine dei cicli di chemioterapia come sopra riportato, un consolidamento con il trapianto allogenico di midollo emopoietico. Il trapianto allogenico prevede la “sostituzione” del midollo malato del paziente con un midollo di un donatore sano. Nel paziente anziano e/o con delle comorbidità che ostacolano la somministrazione di chemioterapia intensiva (non fit), esistono oggi trattamenti ad intensità ridotta (es. Azacitidina +/- Venetoclax).

Ad oggi la leucemia mieloide acuta è una malattia curabile in una buona percentuale di casi, soprattutto quando le caratteristiche biologiche della malattia sono favorevoli. I pazienti che rimangono in remissione (ovvero con quota di mieloblasti <5% su midollo e sangue periferico) per un periodo prolungato sono considerati guariti. Ciò significa che hanno una probabilità estremamente bassa di recidiva di malattia. Purtroppo alcuni pazienti non rispondono alla chemioterapia di induzione e/o recidivano; in questi casi si possono considerare terapie di salvataggio.

 

LEUCEMIA ACUTA LINFOBLASTICA

La Leucemia Acuta Linfoblastica è una patologia che colpisce la cellula staminale che normalmente produce i linfociti. La cellula malata prende il nome di “linfoblasto”. Il linfoblasto può avere caratteristiche che ricordano i linfociti B e in questo caso la leucemia linfoblastica si definirà “B” cellulare; se il linfoblasto ha caratteristiche che ricordano i linfociti T la leucemia linfoblastica si definirà “T” cellulare. Le cellule malate si distribuiscono in prevalenza nel midollo osseo e nel sangue periferico; in questo caso i sintomi sono analoghi a quelli descritti nelle leucemie acute mieloidi. In alcuni pazienti i linfoblasti si accumulano in modo più consistente a livello dei linfonodi determinando ingrossamento degli stessi (linfoadenomegalie). In questo caso si parla di Linfoma Linfoblastico ed i pazienti possono presentare sintomi legati all’effetto compressivo dei linfonodi patologicamente ingrossati.

Anche in questa patologia, la prognosi viene definita in base ad alcune caratteristiche biologiche della malattia ed il trattamento scelto anche in base alla fitness del paziente. Il trattamento prevede una chemioterapia di induzione e cicli di chemioterapia di mantenimento; il trapianto di midollo osseo è riservato ai casi con malattia biologicamente sfavorevole o che non mostrino una buona risposta alla chemioterapia di induzione.

Ad oggi la leucemia linfoblastica acuta è una malattia curabile in una buona percentuale di casi, soprattutto quando le caratteristiche biologiche della malattia sono favorevoli. I pazienti che rimangono in remissione completa per un periodo prolungato sono considerati guariti. Ciò significa che hanno una probabilità estremamente bassa di recidiva di malattia. Purtroppo alcuni pazienti non rispondono alla chemioterapia di induzione e/o recidivano; in questi casi si possono considerare terapie di salvataggio comprendente anche target therapies.

 

 

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Linfoma di Hodgkin

Il linfoma di Hodgkin è una patologia ematologica rara. La maggioranza dei pazienti presenta alla diagnosi un’età compresa tra i 15 e 35 anni. Un secondo picco di incidenza si verifica in età adulta, dopo i 55 anni.

Si distinguono due principali entità: il Linfoma di Hodgkin classico (CHL) e il linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare (NLPHL). Quest’ultimo rappresenta il 5% di tutti i casi di linfoma di Hodgkin, mentre il linfoma di Hodgkin classico rappresenta i restanti 95% dei casi ed è a sua volta suddiviso in 4 sotto-istotipi:

  • Sclerosi nodulare;
  • Cellularità mista;
  • Deplezione linfocitaria;
  • Ricco in linfociti.

I progressi terapeutici degli ultimi decenni hanno reso il linfoma di Hodgkin una patologia curabile in almeno l’80% dei casi. I tassi di risposta e le probabilità di sopravvivenza sono così drammaticamente migliorate, che è divenuto ora prioritario individuare strategie in grado di limitare la tossicità a medio e lungo termine, soprattutto per i pazienti con malattia limitata.

La scelta del trattamento ottimale per un paziente affetto da linfoma di Hodgkin deriva da una valutazione globale del singolo paziente che tenga conto delle condizioni generali, di eventuali patologie associate, dell’aspettativa di vita e dell’obiettivo terapeutico.

 

Come si effettua la diagnosi?

 La diagnosi deve essere effettuata mediante biopsia, preferibilmente togliendo il linfonodo clinicamente più rilevante. Qualora non fosse presente un linfonodo superficiale o la biopsia chirurgica fosse di difficile esecuzione, la diagnosi può essere fatta con agobiopsia della sede anatomica meglio accessibile e maggiormente interessata, sotto guida radiologica TAC o ECOGRAFICA.


Quali sono le indagini da eseguire all’esordio?

 Le indagini fondamentali alla diagnosi sono:

  • verifica della storia clinica del paziente;
  • visita del paziente con valutazione anche delle stazioni linfonodali superficiali e della milza;
  • valutazione dei sintomi, che possono essere rappresentati da febbre, sudorazione profusa soprattutto notturna, dimagrimento significativo in un breve periodo. Possono essere inoltre presenti: dolore talvolta indotto dall’assunzione di alcool, prurito generalizzato, astenia, tosse, affanno;
  • Esami di laboratorio;
  • TAC con mezzo di contrasto di collo, torace, addome e pelvi;
  • Tomoscintigrafia globale corporea, PET;
  • in casi selezionati ecografia, RMN con o senza mdc;
  • biopsia osteomidollare, solo in casi selezionati;
  • valutazione cardiologica con visita, elettrocardiogramma ed ecocardiogramma;
  • valutazione delle prove di funzionalità respiratoria (spirometria e DLCO);
  • test di gravidanza nelle donne in età fertile;
  • consulenza per la preservazione della fertilità nei pazienti giovani.

Necessaria, infine, la valutazione di eventuali patologie concomitanti e della fragilità del paziente anziano. Quando necessario è utile proporre al paziente una valutazione del disagio psicologico derivante dalla diagnosi e dalla necessità del trattamento.


Quali terapie sono previste nel Linfoma di Hodgking classico?


Il programma di terapia prevede - nella maggior parte dei casi - un trattamento chemioterapico associato eventualmente a radioterapia.

Nei pazienti con malattia più estesa è invece prevista l’associazione della chemioterapia al brentuximab vedotin, un anticorpo monoclonale anti-CD30 coniugato ad un farmaco (l’agente antimicrotubulare monometilauristatina E, MMAE).

La valutazione della risposta, ovvero dell’efficacia del trattamento, viene effettuata dopo i primi 2 cicli di chemioterapia e alla fine del programma di trattamento.

E’ ormai definito il ruolo prognostico della PET eseguita dopo i primi 2 cicli di trattamento, tanto da guidare nella scelta terapeutica. Non è invece indicato l’utilizzo della PET nel follow-up.

Nei pazienti con età superiore ai 60 anni il programma di trattamento dovrà considerare le patologie concomitanti, le condizioni generali. Andranno eventualmente considerati percorsi alternativi, adattati.

Il trapianto autologo è un’opzione riservata a quei pazienti giovani che non rispondono ai trattamenti iniziali.

In caso di malattia non responsiva sono disponibili:

  • brentuximab vedotin;
  • checkpoint-inibitori anti-PD-1 o anti-PD-L1 (nivolumab, pembrolizumab);
  • nel caso di disponibilità di un donatore di cellule staminali allogeniche e di risposta favorevole, consolidamento con trapianto allogenico;
  • radioterapia in sedi non precedentemente irradiate;
  • partecipazione a trials clinici: i trials o studi clinici o programmi sperimentali consentono al paziente di accedere a trattamenti innovativi non ancora disponibili nella pratica clinica, rappresentando di fatto un’opportunità terapeutica aggiuntiva.

 

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Quali terapie sono invece previste nel linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare?

Il linfoma di Hodgkin a predominanza linfocitaria nodulare è caratterizzato da un decorso indolente e possibili recidive tardive. La sua storia naturale e le risposte al trattamento sono differenti rispetto al linfoma di Hodgkin classico.

La maggior parte dei pazienti presenta una malattia limitata e raramente si presenta con sintomi sistemici, malattia voluminosa o coinvolgimento mediastinico (masse nel torace).

Nella malattia localizzata può essere considerata la radioterapia.

In casi selezionati può essere preso in considerazione, anche il solo controllo clinico (watch and wait).

Nella malattia più estesa è prevista l’immunochemioterapia.

In caso di recidiva o mancata risposta nei pazienti giovani può essere considerato anche il trapianto autologo.

 

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Linfoma non-Hodgkin

linfomi non-Hodgkin (LNH) sono un gruppo eterogeneo di neoplasie del sistema emolinfopoietico che hanno origine dai linfociti B o dai linfociti T.

Il sistema linfatico è una rete formata da organi, ghiandole e vasi che si estendono lungo tutto il corpo. Ne fanno parte anche il timo, le tonsille, la milza e i linfonodi, che rappresentano le “stazioni” di questa rete. Tale sistema ha il compito di difendere l’organismo dagli attacchi degli agenti esterni e delle malattie e, per compiere quest’azione, si serve dei linfociti. I linfociti sono cellule presenti nel sangue e che vengono prodotte nel midollo osseo. Si distinguono linfociti di tipo T e di tipo B.

 

Come si manifesta?

La manifestazione tipica di questa malattia è caratterizzata dal rigonfiamento di uno o più linfonodi, che diventano ben visibili e piuttosto duri al tatto. Tuttavia l’ingrossamento di un linfonodo nel collo, nell’ascella o nell’inguine non certifica automaticamente la presenza di un linfoma: queste strutture, infatti, possono gonfiarsi anche in seguito a semplici infezioni.

I linfonodi non sono le uniche strutture ad essere potenzialmente interessate da un aumento di volume: le cellule tumorali possono concentrarsi in diversi organi del corpo e causarne il rigonfiamento. 

I sintomi variano in base all’aggressività della malattia (ossia alla velocità con cui proliferano i linfociti B), alla localizzazione delle cellule, al quadro istologico e genetico-molecolare che caratterizza la patologia. Possono comparire la febbre o febbricola, sudorazione eccessiva, perdita dell’appetito e di peso, stanchezza e debolezza, dolore all’addome o al petto, tosse e difficoltà di respirazione.

 

Quali sono le cause? 

Il linfoma non-Hodgkin è determinato dalla proliferazione incontrollata dei linfociti. Anzichè terminare il normale ciclo di vita cellulare morendo, infatti, le cellule tumorali continuano a moltiplicarsi, dando così origine al linfoma. Le cause non sono ancora ben identificate con certezza, ma si conoscono alcuni fattori di rischio. L’esposizione a radiazioni o ad alcune sostanze chimiche (ad esempio insetticidi e benzene), la somministrazione di alcuni agenti chemioterapici sono condizioni che possono aumentare il rischio di sviluppare un linfoma. Allo stesso modo, i pazienti affetti da infezioni (ad esempio HIV, virus di Epstein-Barr, Helicobatery pylori), da malattie autoimmuni o da una condizione di immunodepressione hanno un rischio maggiore di sviluppare questa patologia.

 

Come si accerta la diagnosi?

In presenza di sintomi e/o di un ingrossamento dei linfonodi ascellari, inguinali o del collo, è necessario rivolgersi al proprio medico o ad uno specialista. Dopo aver verificato la storia clinica e familiare del paziente, il medico esegue un esame fisico per valutare l’ingrossamento dei linfonodi e accertare la presenza di eventuali altri sintomi o segni tipici. In caso di sospetto linfoma prescriverà le necessarie indagini di approfondimento. 

In presenza di linfonodi sospetti si procede con una biopsia, ossia con un prelievo di tessuto e con la successiva analisi in laboratorio del materiale. Preferibilmente il linfonodo viene interamente rimosso. Talvolta per la diagnosi viene eseguita anche la biopsia del midollo osseo. 

In ogni caso, la valutazione istologica permette di diagnosticare la malattia, che deve poi essere studiata dal punto di vista delle caratteristiche e dell’estensione (stadiazione). Questa seconda fase può prevedere una lunga serie di esami radiologici come la Tac, la risonanza magnetica, ecografie e la PET. Infine, l’iter diagnostico viene in genere completato da una valutazione midollare, da esami del sangue e delle urine.

 

LINFOMA NON-HODGKIN A CELLULE B

Il linfoma non Hodgkin a cellule B è la forma più frequente di linfoma non Hodgkin e rappresenta circa l’85% dei casi di linfoma non Hodgkin. Il linfoma non Hodgkin a cellule B è un tumore che origina dai linfociti B e colpisce gli organi del sistema linfatico.

Nei pazienti affetti da linfoma i linfociti di tipo B proliferano in maniera rapida e incontrollata, dando origine a cellule tumorali che non sono in grado di assolvere le loro funzioni e che tolgono spazio alle cellule sane. Tali cellule si concentrano soprattutto nei linfonodi del collo, dell’ascella o dell’inguine, ma possono diffondersi anche ad altri organi e strutture come i vasi linfatici, le tonsille, la milza, il fegato, lo stomaco, i polmoni e il midollo osseo. 

 

Trattamenti 

La terapia dipende dalle condizioni di salute e dall’età del paziente, oltre che dalle caratteristiche della malattia e dallo stadio della patologia. 

In linea generale, il trattamento del linfoma di non-Hodgkin prevede la chemioterapia in genere associata all’immunoterapia (immunochemioterapia). Tale cura viene somministrata in più cicli e può durare anche diversi mesi, talvolta anni. Se la malattia è limitata ad un’unica sede può essere valutata anche la radioterapia.

Sono oggi disponibili diverse opzioni terapeutiche per il trattamento dei pazienti che non rispondono ad un primo trattamento o che presentano una recidiva della malattia. L’immunoterapia sta acquisendo un ruolo sempre più determinante con l’impiego di anticorpi monoclonali bispecifici (ossia rivolti a due bersagli del linfoma) e con la disponibilità del trattamento CAR-T. Sono disponibili presso il nostro centro anche diversi trattamenti nell’ambito programmi sperimentali / trials o studi clinici che consentono al paziente l’opportunità di accedere a nuovi trattamenti.

Il trapianto di midollo - autologo o allogenico - è in genere previsto nei pazienti che non rispondono ai trattamenti iniziali o in situazioni particolari.

Se vuoi sottoporre il tuo caso e verificare l’indicazione al trattamento CAR-T o per valutare l’accesso a programmi sperimentali / trials - studi clinici:

 

Tipi di LINFOMA NON-HODGKIN A CELLULE B

LINFOMA A PICCOLI LINFOCITI o LEUCEMIA LINFATICA CRONICA (Small lymphocytic lymphoma, 6 SLL; Chronic lymphocytic leukemia, CLL)

LINFOMA DELLA ZONA MARGINALE (Marginal zone lymphoma, MZL) 

MACROGLOBULINEMIA DI WALDENSTROM  

LEUCEMIA A CELLULE CAPELLUTE (HAIRY CELL LEUKEMIA, HCL) 


 

LINFOMA NON-HODGKIN A CELLULE T 

 

 

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Mieloma

Il Mieloma Multiplo (MM) è una patologia del sangue che appartiene al gruppo delle discrasie plasmacellulari, malattie che coinvolgono le plasmacellule, cellule deputate alla produzione di anticorpi (chiamati anche immunoglobuline). Ogni plasmacellula produce un unico tipo di anticorpo, differente dagli altri, composto da una catena pesante (in base alla classe, chiamata gamma, alfa, mu, delta, epsilon) e una catena leggera (kappa o lambda).  Gli anticorpi vengono chiamati in base alla catena pesante: IgG, IgA, IgM, IgD ed IgE.

Nel MM una di queste plasmacellule cresce in maniera incontrollata creando cloni che produrranno lo stesso tipo di anticorpo. Questi anticorpi possono essere valutati con un esame del sangue chiamato elettroforesi sierica, in cui emerge la presenza di una “componente monoclonale (CM)” anomalo.

Le plasmacellule sono cellule che vivono nel midollo osseo, e quando proliferano nel mieloma “infiltrano” lo spazio alle altre cellule che normalmente producono tutti gli elementi che compongono il sangue (globuli bianchi, globuli rossi, piastrine), provocando anche delle lesioni alle ossa.

 

Sintomi

I sintomi del Mieloma Multiplo sono legati all’attività delle plasmacellule neoplastiche. Le persone affette da MM lamentano molto spesso stanchezza e facile affaticabilità, legata all’anemia dovuta all’invasione midollare.

Un altro importante sintomo è il dolore, dovuto alle lesioni scheletriche, tipicamente a livello della colonna vertebrale, del bacino, delle coste e - dello sterno.

 

Diagnosi

La diagnosi di Mieloma Multiplo viene posta quando è presente almeno uno di questi elementi:

  • Componente monoclonale maggiore di 3 g/dL
  • Presenza di infiltrato midollare composto da almeno il 10% di plasmacellule patologiche
  • Presenza di almeno uno dei segni legati alla malattia, chiamati SLIM CRAB
  •                    - S: 60% di infiltrato di plasmacellule nel midollo (Sixty)
  •                    - LI: alterazione del normale rapporto tra le catene leggere kappa e lambda, maggiore di 100 a 1 (Light chain Involvment)
  •                    - M: presenza di lesioni allo scheletro evidenti in risonanza magnetica (Magnetic resonance)
  •                    - C: iperCalcemia
  •                    - R: insufficienza Renale
  •                    - A: Anemia
  •                    - B: presenza di una lesione visibile all’Rx dello scheletro (Bone lesion)

 

È quindi necessario eseguire esami del sangue, delle urine, una risonanza magnetica (o in alternativa una PET o una TC dello scheletro) e una biopsia del midollo per poter porre con correttezza una diagnosi di mieloma multiplo.

 

Diagnosi differenziale

Esistono alcune condizioni molto simili al mieloma multiplo:

  • La gammopatia monoclonale di incerto significato (MGUS) in cui, pur in presenza di una componente monoclonale, non è presente nessuno dei criteri sopracitati. Tale condizione è considerata benigna e deve essere sottoposta a solo monitoraggio per escludere la trasformazione in franco mieloma multiplo. L’evoluzione verso la vera patologia avviene con l’incidenza di circa l’1% dei casi all’anno.
  • Mieloma Multiplo asintomatico (o smouldering). In questo caso è presente uno dei primi due criteri per Mieloma Multiplo (che distinguono la patologia dalla MGUS) ma non sono presenti i criteri SLIM CRAB. Anche in questo caso le attuali linee guida consigliano di eseguire solo monitoraggio, anche se molto più stretto rispetto alla MGUS, poiché il rischio di trasformazione in franco Mieloma Multiplo è molto più elevato.
  • Plasmocitoma solitario. In questo caso le plasmacellule crescono formano un'unica grossa lesione che può coinvolgere un osso (plasmocitoma osseo) o un altro tessuto del corpo (plasmocitoma extraosseo). Il trattamento in prima linea consiste in una radioterapia sulla lesione, mentre dalla seconda linea di terapia in poi viene trattato come un Mieloma Multiplo.

Oltre a queste, esistono alcune forme di MM particolari:

  • Mieloma Multiplo micromolecolare. In questa forma, le plasmacellule malate non riescono a produrre tutto l’anticorpo completo, ma solo le catene leggere. Non è possibile usare l’elettroforesi delle proteine per valutare la malattia, ma solo il dosaggio delle catene leggere libere nel siero e nelle urine.
  • Mieloma Multiplo non secernente. Questa variante molto rara è caratterizzata dalla completa assenza di qualsiasi parte dell’anticorpo, sia la catena leggera che quella pesante. L’unico modo per valutare la malattia pertanto è la ripetizione del midollo osseo e la valutazione radiologica dello scheletro.

 

Terapie

Le terapie per il Mieloma Multiplo sono in continua evoluzione, e molti nuovi farmaci sono stati approvati negli ultimi anni, portando ad un significativo miglioramento della qualità di vita e della prognosi delle persone con MM.

Le attuali terapie si basano sull’utilizzo in combinazione di diverse categorie di farmaci, che agiscono in maniera sinergica (rinforzando l’una l’azione dell’altra).

I farmaci più comunemente utilizzati sono:

  • Anticorpi monoclonali diretti contro il marcatore CD38. Questi farmaci agiscono legandosi al bersaglio CD38, espresso dalle plasmacellule, provocandone la morte sia direttamente che tramite l’azione delle cellule del sistema immunitario sano. Queste terapie possono essere sia sottocute che endovenose. Attualmente vi sono due farmaci in commercio: Daratumumab e Isatuximab.
  • Farmaci con azione immunomodulante (IMiDs). Queste terapie agiscono “riattivando” le cellule del sistema immunitario sano del paziente, che possono così andare ad uccidere le cellule malate. Le terapie sono tutte orali, e attualmente sono in commercio tre diversi farmaci: Talidomide, Lenalidomide, Pomalidomide.
  • Farmaci inibitori del proteasoma. Questi farmaci bloccano un componente cellulare fondamentale delle plasmacellule, determinandone la morte. Esistono sia formulazioni orali che sottocutanee che endovenose. Attualmente sono disponibili tre farmaci: Bortezomib, Carfilzomib e Ixazomib.
  • Steroidi. Gli steroidi sono stati i primi farmaci ad essere utilizzati nel trattamento del Mieloma Multiplo e sono tutt’ora parte di tutti gli schemi utilizzati, in quanto potenziano l’azione delle altre terapie.

Altre terapie per il MM comprendono anticorpi diretti contro altre molecole come SLAMF7 (Elotuzumab), terapie dirette contro proteine cellulari come l’esportina (Selinexor), o i classici farmaci chemioterapici. Utile come terapia di supporto anche il trattamento con bifosfonati, che protegge le ossa dall’azione lesiva scatenata dalle plasmacellule.

Molto promettente è l’uso di anticorpi bispecifici e delle nuove terapie cellulari CAR-T, che sembrano dare risultati eccezionali anche in linee di trattamento molto avanzate.

L’approccio terapeutico si basa come già detto sulla combinazione di più farmaci appartenenti a categorie diverse, in modo potenziare l’azione di ciascuno di essi e di superare le possibili resistenze della malattia.

Tipicamente, un paziente in prima linea viene valutato in base alla possibilità o meno di essere sottoposto a trapianto autologo di cellule staminali emopoietiche.

Le persone giovani (meno di 65 anni, ma attualmente questa soglia è stata progressivamente aumentata a 70 anni) che non presentano altre patologie importanti vengono candidate ad uno schema che comprende l’utilizzo di quattro diversi farmaci, ciascuno appartenente ad una classe differente: Daratumumab, Talidomide, Bortezomib, Desametasone (acronimo DVTd) per quattro cicli della durata di 28 giorni, al termine dei quali si esegue una chemioterapia con Ciclofosfamide con lo scopo di mobilizzare e raccogliere le cellule staminali emopoietiche del paziente. Una volta avvenuta la raccolta, il paziente viene sottoposto a una nuova chemioterapia (questa volta con Melfalan) con azione mieloablativa (in grado di distruggere completamente il midollo osseo) a cui segue la reinfusione delle cellule staminali emopoietiche, che andranno a ripopolare il midollo osseo.

In alcuni casi, in cui sono evidenti fattori di rischio aumentati (mutazioni citogenetiche specifiche, Mieloma Multiplo micromolecolare o non secernente) può essere utile eseguire a circa 3-6 mesi dal primo trapianto anche una seconda procedura trapiantologica (trapianto tandem).

Dopo avere eseguito il trapianto, il paziente esegue due cicli ulteriori di DVTd quindi avvia terapia di mantenimento con la lenalidomide (un altro IMiDs) a dosaggio basso, fino a progressione della malattia.

Nei pazienti più anziani o che presentano controindicazioni al trapianto vengono utilizzati tre diversi schemi di terapia, ciascuno con almeno tre farmaci:

  • Daratumumab, Lenalidomide, Desametasone (DRd)
  • Daratumumab, Bortezomib, Melfalan orale, Prednisone (DVMp)
  • Bortezomib, Lenalidomide  Desametasone (VRd)

Dalla seconda linea in avanti il trattamento non dipende più dalla fascia di età, ma si basa sull’utilizzo di farmaci non usati nelle precedenti terapie. Se possibile, anche nelle linee successive viene consigliato l’utilizzo di combinazioni di farmaci, in modo da cercare di superare possibili meccanismi di resistenza della malattia.

 

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Altri tumori ematoncologici

Malattie mieloproliferative croniche 

Le malattie mieloproliferative croniche sono un gruppo di neoplasie midollari caratterizzate dalla proliferazione anomala e neoplastica delle cellule della linea mieloide.
Queste patologie sono divise in 2 gruppi in base alla presenza o assenza della traslocazione t(9;22) che genera un cromosoma di fusione, chiamato cromosoma Philadelphia (Ph).

La leucemia mieloide cronica è caratterizzata dalla presenza della t(9;22), le altre patologie costituiscono le sindromi mieloproliferative croniche (SMP) Philadelphia negative e possono a loro volta presentare altre mutazioni genetiche.

 

CLASSIFICAZIONE

Sindromi mieloproliferative Philadelphia positive:

LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA

Sindromi mieloproliferative Philadelphia negative:

POLICITEMIA VERA
MIELOFIBROSI PRIMITIVA
TROMBOCITEMIA ESSENZIALE


LEUCEMIA MIELOIDE CRONICA

La Leucemia Mieloide Cronica (LMC) è un disordine mieloproliferativo cronico cromosoma Ph positivo che colpisce la cellula staminale emopoietica.
Clinicamente la LMC è caratterizzata da un incremento dei globuli bianchi di grado variabile con presenza di progenitori mieloidi immaturi (come promielociti, mielociti e metamielociti) a livello del sangue periferico. Possono inoltre anche essere presenti incremento delle piastrine, dei basofili e degli eosinofili.
La LMC è una malattia multifasica, che esordisce con una fase cronica, per lo più asintomatica, durante la quale la elevata proliferazione delle cellule mieloidi si accompagna al mantenimento di una capacità maturativa delle cellule. La storia naturale della patologia prevede tuttavia che, dopo un tempo variabile da pochi mesi a molti anni (in media 3-4 anni), la fase cronica si trasformi inevitabilmente in una fase acuta (crisi blastica), che si manifesta come una leucemia acuta. Frequente è il riscontro di una fase intermedia (fase accelerata), che precede la crisi blastica e si caratterizza per la progressiva perdita della capacità maturativa delle cellule midollari, con un incremento dei blasti, dei promielociti e dei basofili nel sangue midollare e talora comparsa di anemia e piastrinopenia.

La terapia della LMC in fase cronica prevede l’utilizzo di un gruppo di farmaci (inibitori delle tirosinkinasi - TKI):

  • Imatinib
  • Dasatinib
  • Nilotinib
  • Bosutinib
  • Ponatinib
  • Asciminib

A oggi non esiste un criterio solido per raccomandare uno specifico TKI in prima linea. La scelta terapeutica deve essere guidata dall’anamnesi (in particolare dalle comorbidità e dal relativo profilo specifico del farmaco) e dal progetto terapeutico (previsione della sospensione del TKI in futuro) ritagliato per ogni paziente.
La terapia con Interferone è da riservarsi solo ai pazienti che non possono essere trattati con TKI (es: stato gravidico).

L’approccio con chemioterapia non è mai raccomandato in fase cronica, mentre può essere utile durante la fase blastica per preparare i pazienti al trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche.

 

POLICITEMIA VERA

La Policitemia Vera (PV) è una neoplasia che si caratterizza in particolare per un marcato incremento della produzione di globuli rossi. Come le altre MNP croniche presenta un aumento del rischio di eventi trombotici (arteriosi e venosi) ed emorragici, come pure un aumentato rischio di trasformazione mielofibrotica e leucemica acuta.

I sintomi sono legati all’aumento dei globuli rossi e comprendono:

  • rossore al volto
  • vertigini
  • cefalea
  • senso di ottundimento
  • ronzii
  • acufeni
  • disturbi della vista
  • eritromelalgia
  • prurito (di solito acqua-genico)
  • sudorazioni abbondanti (in particolare di notte)


Alla valutazione clinica può emergere la presenza di splenomegalia.
Qualche volta il primo sintomo può essere rappresentato da un evento trombotico e meno frequentemente emorragico.

Nel 99% dei casi è presente la mutazione del gene JAK-2 (V617F) ed un incremento dell’ematocrito (M: >49%, F: >48%).

La PV può essere a:

  • basso rischio: pazienti di età inferiore ai 60 anni che non hanno presentato eventi trombotici
  • alto rischio: pazienti con età superiore a 60 anni o storia pregressa di eventi trombotici

La terapia dei pazienti a basso rischio si basa sulla salassoterapia e/o aspirina a basso dosaggio (100mg/die). In quelli ad alto rischio la terapia prevede oncocarbide o ropeg-IFNα2a e, nei casi refrattari o intolleranti, ruxolitinib.

 

TROMBOCITEMIA ESSENZIALE

La Trombocitemia Essenziale (TE) è caratterizzata da un incremento del numero delle piastrine e da un aumentato rischio di trombosi o emorragie. L’andamento clinico è di solito indolente, ma una quota di pazienti può andare incontro a trasformazione leucemica o fibrotica (meno frequentemente della PV).
Frequentemente si tratta di una condizione asintomatica, ma un terzo dei pazienti può sviluppare una sintomatologia simile a quella della PV. In particolare:

  • cefalea
  • vertigini
  • ronzii
  • riduzione della visus
  • formicolii alle mani o piedi
  • ritromelalgia

Meno frequente è la presenza di splenomegalia.

La terapia ha lo scopo di ridurre il rischio trombotico, con la terapia antiaggregante (aspirina a basso dosaggio, 100mg/die) e - in chi ha un rischio trombotico più elevato - oncocarbide in prima linea.
Se resistenti o intolleranti si può utilizzare anagrelide o peginterferone α-2a.

 

 

MIELOFIBROSI

La Mielofibrosi può esordire de novo o insorgere come evoluzione di una precedente PV o TE.
Può esistere una fase precoce detta pre-fibrotica che spesso è asintomatica e caratterizzata da alterazione dell’emocromo (incremento dei globuli bianchi, incremento delle piastrine, anemia, non necessariamente tutti presenti).

La fase avanzata (overt) è caratterizzata da sintomi costituzionali come febbre, sudorazioni, calo ponderale e dall’emopoiesi extramidollare, a carico della milza (più frequente) e di altri organi come fegato, linfonodi, tratto gastrointestinale, cute e tessuti molli. I pazienti presentano anche alterazioni degli esami ematici (anemia, piastrinopenia, leucopenia).

L’unica terapia che potrebbe ottenere una remissione della malattia nei pazienti giovani idonei è il trapianto di cellule staminali emopoietiche. Per gli altri si può utilizzare il ruxolitinib o fedratinib, anche se le indicazioni terapeutiche non sono uguali per tutti i pazienti e si basano sul rischio prognostico e sulla presenza dei vari sintomi clinici.

 

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